StreetArt
Siamo abituati a vedere la bellezza nell’arte, dalla classica alla moderna, come immutabile e perfetta, un’esperienza che scongiura la ferita. Là dove ci sta la bellezza ci sta la proporzione delle forme, l’armonia, l’equilibrio: dove c’è bellezza non c’è ferita. Anzi possiamo dire che gran parte dell’arte tradizionale è stata concepita come barriera alla ferita, come rifugio e protezione, come esorcismo contro le ferite.
Nella street art la bellezza non esclude la ferita, ma la ospita. Anzi eleva la ferita stessa alla dimensione più alta della bellezza.
Accogliere la ferita significa che lo spazio dell’opera ospiti il tempo, sia disposta ad essere “crossata” da un’altra opera, che si sottoponga agli agenti atmosferici, che sia danneggiata o cancellata da chi non gradisce l’opera sia esso soggetto pubblico che privato.
Quasi sempre le opere di street art sono realizzate su muri, elementi materici che implicano l’offesa del tempo, le trasformazioni che l’incidenza del tempo genera nello spazio dell’opera.
L’opera continua a vivere nel tempo. L’artista governa il processo creativo, pur all’interno del suo formalismo, ma al tempo stesso c’è un punto in cui deve abbassare le armi, concede l’opera alla fruizione pubblica nel momento in cui la l’opera e la sua materia saranno abitate dal tempo.
Il tempo non è un susseguirsi di istanti, il kronos, ma è espansione della creatività altra, di trasformazione altra, quindi diventa kairos.
La street art non vive l’eternità ma vive il tempo, vive la storia. Il tempo e la storia contamineranno l’opera di street art, diventando parte viva dei quartieri. Antonino Clemenza ph